venerdì 17 luglio 2009

L'infanzia di Morgan.








Morgan: «Un saluto,
e mio padre si è ucciso»
«Ero a scuola, lo zio mi disse: papà non c’è più»

Morgan in braccio al padre, con la madre e la sorella
La vita cambia un giorno di pioggia, all’uscita da scuola, l’auto di tuo zio fuori che aspetta. «L’11 ottobre, nel 1988. Mio padre si era ammazzato». Il foto­gramma che segna il prima e il dopo è un’immagine inedita, impressa per sempre. «Lui fermo alla finestra, sa­lutava me e mia sorella con la mano. Non lo aveva mai fatto prima. Quella mattina sì». Ora lo chiama il dono, «un brutto dono, il marchio di De­mian, direbbe Herman Hesse», quel­lo che stabilisce una distanza assolu­ta con il genere umano: «Seduto in macchina continuavo a guardare gli altri ragazzi che uscivano. Ecco, pen­savo, loro adesso non sono più ugua­li a me, io non sono più uguale a lo­ro. Sono stato l’unico della famiglia ad andare a prenderlo all’obitorio: l’ho guardato, l’ho toccato, ho visto cosa aveva fatto. Non era più mio pa­dre, lì dentro non c’era più nessun barlume di anima. Non capivo anco­ra il suo gesto. Dopo mi sono fatto tatuare un enorme punto di doman­da sul braccio».

Interno notte. Morgan siede da­vanti all’arpicordo, nel salotto della sua casa disordinata e calda, piano terra in una via laterale di Monza. Lo zerbino un cuore rosso, La Fontaine, Camus, Seneca e Leonardo Da Vinci per terra, l’ombra di Anna Lou, la fi­glia, con quella bicicletta e il casco appoggiati nell’ingresso, la collezio­ne di cappelli sopra il tappeto. Ha ap­pena finito le prove del tour che par­te stasera a Cremona: «Italian son­gbook live 09». Beve una Coca e fu­ma una sigaretta. Il pirata questa vol­ta intende spiazzare anche se stesso. «Ci eravamo appena trasferiti in una casa allegra, con il giardino. Mio padre era un po’ depresso, ma a quei tempi non se ne parlava, altrimenti, forse, sarebbe bastato lo psicologo. Era un’altra epoca. Le cose dovevano andare sempre apparentemente be­ne, non ci si confidava. Credo che non abbia mai detto a mia madre quanto stava male. Immagino aves­se fondamentalmente un problema di tipo economico, chissà da quanto tempo il pensiero gli marciva den­tro. Ma voleva fare la parte del capo famiglia, il leader che guida, l’istitu­zione. In realtà si sentiva un fallito. E alla fine non ha più voluto recitare la parte e ha scelto un gesto primordia­le per andarsene».

La vita cambia aprendo le fine­stre. «Il clima in famiglia si è allegge­rito all’improvviso. Mia madre ha co­minciato a dipingere fiori sulle pare­ti, ha tirato fuori la sua innata alle­gria, che si era spenta dietro alla cu­pezza di papà. I nostri amici adesso potevano venire a dormire a casa, quattro-cinque alla volta, stavamo nei sacchi a pelo sul tappeto. Si face­va un po’ festa, suonavamo con le fi­nestre aperte, ballavamo. Ecco, a me dispiace dirlo, perché ho sofferto molto e ancora soffro se ripenso al mio papà, mi viene proprio da pian­gere. L’ultima volta l’altro giorno, mentre ascoltavo Preghiera in genna­io di De Andrè, scritta dopo che Lui­gi Tenco si è ucciso. Però è andata così».

Mario Castoldi, il papà di Marco, di Morgan, del giudice caustico di X-Factor, del poeta-cantautore col­to, si è tolto la vita a 48 anni. «Non sono tanti di più dei miei oggi e que­sto mi fa riflettere. Sono quello che più gli somiglia, in qualche modo, e questo mi inorgoglisce, ma mi spa­venta anche. Lui era gentile, elegan­te, non diceva parolacce e non be­stemmiava, non andava a bere con gli amici, amava stare con noi in fa­miglia. Una persona raffinata, con modi non dico femminili, ma estre­mamente dolci. Pe­rò era anche violen­to, nei periodi di cu­pezza ». Morgan, dopo, comincia a sfidare il mondo. «Fosse successo a mia madre sarebbe stato diverso. Ma il padre rappresenta l’au­torità. Da allora ho messo tutto in di­scussione. Dovevo trovare la rispo­sta all’enigma, capire perché era suc­cesso, se trovi la soluzione non so­pravvivi: vivi». E con la ricerca è arri­vata la compassione, il rispetto per quell’uomo nobile d’animo al quale deve la sua vita libera, un padre «onesto, retto e corretto», gli diceva ogni volta la vicina di casa sul piane­rottolo. «Reputo che il mio papà non ha potuto essere se stesso, non gli hanno insegnato a essere sincero. Ha fatto il mobiliere, come suo pa­dre, mio nonno. Ma niente è più criminoso che continuare la profes­sione del tuo genitore se non ti ap­passiona davvero. Mio padre amava la fotografia, era bravo, si prendeva cura delle sue macchine fotografi­che. Nel tinello c’era una credenza per i piatti e bicchieri e una per bobi­ne, registratori, proiettori, moviole. Questo era lui. Sto rimontando i suoi Superotto, sto facendo un film che chiamerò I Castoldies, nel senso di 'vecchi', mia sorella che corre sui prati, io che ballo allo specchio, la fe­sta per la mia cresima sul terrazzo. Ho ancora le registrazioni di quei canti con la chitarra, di mia mamma che suonava il piano mentre io dor­mivo sul divano. Poverino, mio pa­dre, perché ha dovuto fare il mobilie­re e non è riuscito ad articolare l’indi­gnazione rispetto a ciò che gli aveva­no imposto». Il dolore ha rafforzato così la sua determinazione. «Io sono esattamente ciò che da piccolo ave­vo immaginato che sarei stato».

Poi un giorno la vita cambia anco­ra. Ed è una vita che nasce, non una che muore. È il figlio che diventa pa­dre. «Anna Lou è nata in una clinica a Lugano il 20 giugno 2001. Ho assi­stito al parto con una tempistica in­credibile. Ero stato accanto alla mam­ma per tutta la gravidanza 99 ore su 24. Avevo la sindrome della covata, con le mani ingrossate, sembrava do­vessi partorire pure io. Poi, in sala parto, mi addormento sfinito per ri­svegliarmi di colpo un quarto d’ora prima che lei venisse al mondo. Ho tagliato il cordone ombelicale, ho fat­to il bagnetto e le ho cantato la pri­ma canzone: Baby Blue, perché ave­va la testa blu e sembrava un puffo». Insiste che lui era già diverso, era co­sì cambiato da sentirsi pronto a una relazione con una piccola creatura. Però, certo. «Penso sempre a lei. Non c’è una cosa che io non voglia fare con mia figlia. Fumo anche da­vanti a lei, perché voglio che mi co­nosca con i miei limiti. Ma le ho inse­gnato il dissenso, può dirmi smetti­la ». Con Anna Lou comincia il viaggio nel futuro sui libri di Bruno Munari e di Gianni Rodari, con la musica funzionale di Ray­mond Scott che ti suggerisce i suoni per ogni fase della crescita dei tuoi bambini. E il fotogramma che segna il prima e il dopo è un’immagine ine­dita, impressa per sempre, questa volta dolcissima: «È Anna Lou che non riesce a dormire e che metto sul mio petto, sincronizzando il respiro, io e lei con lo stesso ritmo, il pneu­ma, l’alito che è la vita».


Elvira Serra
17 luglio 2009

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