venerdì 10 luglio 2009

G 8 from Maddalena to L'Aquila. Un successo per il Governo.









Il Summit G8 2009, che si è tenuto a L’Aquila in segno di solidarietà verso la popolazione abruzzese colpita dal terremoto e di chiunque nel mondo sia colpito da calamità naturali, si è concluso approvando sette dichiarazioni congiunte sui temi della crisi economica, della povertà, del cambiamento climatico e delle questioni politiche internazionali. I leader hanno riconosciuto che la loro azione è rafforzata dall'impegno congiunto con le grandi economie emergenti e deciso di progredire insieme verso un'associazione stabile e strutturata.

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ROMA — E ora che il G8 si è chiuso, che ne sarà della tregua? Si romperà presto, arro­ventando la nostra estate sotto l’incombere di alcuni appuntamenti parlamentari delica­ti e controversi — il tema giustizia su tutti — e riaccendendo il conflitto che tiene il si­stema in torsione ormai da 15 anni? O si può invece sperare che una così decongestionan­te settimana possa aver bagnato le polveri e aver magari ispirato uno spirito diverso, me­no devastante e politicamente cruento, a quanti guidano il confronto pubblico in Ita­lia? Se giri queste domande al presidente del­la Repubblica, che aveva chiesto l’armistizio «nell’interesse del Paese», raccogli risposte il bilico tra l’esorcismo di chi lancia messag­gi in bottiglia (senza quasi più confidare che vengano raccolti), e la fiducia ragionata di chi ha visto largamente accolto il proprio ap­pello.

«Potrei dire con una battuta che, in gene­rale, dopo le tregue o riprendono i combatti­menti o si cerca la pace. Nel caso della nostra vicenda politica, nessuno può pensare che ci sia la pace come rinuncia alle rispettive posi­zioni: siamo in un Paese che ha pienezza di vita e di dialettica democratica, c’è il gover­no che fa la sua parte, con l’opposizione che fa la sua. Penso però che si potrebbe costrui­re, e che sarebbe tempo di cominciare a far­lo, non una impossibile pace, ma almeno un clima più civile, corretto e costruttivo nei rapporti tra governo e opposizione». Giorgio Napolitano naturalmente sa bene che, per arrivare a un simile scenario, serve una sorta di disarmo bilanciato. Infatti, spie­ga, continuando nella metafora bellica, «co­me la tregua significa cessazione dei combat­timenti da ambedue le parti, allo stesso mo­do la costruzione della pace o, meglio, nel caso nostro, di un clima più pacato, richiede il contributo di tutti e due i fronti. Richiede, perlomeno, più senso della misura».

E ci si può arrivare, aggiunge, partendo ciascuno, alla vigilia della pausa estiva, da «un perio­do di respiro». Purché, insomma, prevalga la riflessione sui problemi rispetto alla vo­glia di incassare subito, per il proprio schie­ramento, altri dividendi di una lotta politica drammatizzata. In fondo, riflette il capo dello Stato in que­sto weekend di riposo a Castelporziano, il summit dell’Aquila dimostra che, come ha scritto Sergio Romano sul Corriere , «in certe occasioni il governo, piaccia o no, rappresen­ta l’intero Paese. Se ne esce a testa alta è una vittoria per tutti, se ne esce male siamo tutti sconfitti». E successo è stato, concorda il Pre­sidente. «Sì, l’approccio di quel commento di Romano era assolutamente giusto e in sin­tonia con il mio richiamo. Con il quale non volevo zittire né la politica né l’informazio­ne, che hanno sempre le loro ragioni, ma sol­lecitare un momento decongestionante, di­ciamo così, per salvaguardare l’immagine del Paese. Mi pare che, nell’insieme, l’Italia sia uscita bene da questo G8 e che si sia espressa nel complesso una maggior consa­pevolezza e condivisione della responsabili­tà nazionale».

Un bilancio buono, che Napolitano esten­de ai risultati del G8, anche se non ha ancora letto tutti i documenti conclusivi. «Credo che si possano trarre giudizi positivi, per quanto non si debbano mai sopravvalutare le chances di conclusioni concrete in vertici di questa natura. È un’osserva­zione che fa il Financial Times di oggi, citando alcuni preceden­ti. Infatti è chiaro che, com’è ac­caduto stavolta, quando si han­no a confronto molto più di otto capi di Stato e di governo, anche se c’è stata una preparazione accu­rata, si trovano dei punti di conver­genza e di caduta la cui effettiva va­lenza va verificata nel merito. Quan­do per esempio si tratta di impegni finanziari, bisogna dopo garantirsi che siano rispettati. Comunque ci so­no state questioni, come l’impatto del­la crisi economica sui Paesi meno svi­luppati o come quella dei cambiamen­ti climatici, che sono state trattate seria­mente e che hanno dato luogo a risulta­ti interessanti». Il Presidente è anche d’accordo sulla drastica diagnosi formulata da tutti in Abruzzo, e da lui stesso anticipata nel pranzo di gala: «Non è più tempo di diret­tori ». Nel senso che la tempesta economica e sociale che dilaga nell’intero atlante mon­diale impone sforzi congiunti, per i quali bi­sogna chiedere la responsabilità del mag­gior numero di Paesi, a partire da una rifor­ma delle istituzioni internazionali.

Ragiona Napolitano: «Comprendo che sia­no necessarie intese urgenti, di fronte al­l’emergenza finanziaria e alle sue ricadute. Servono però soluzioni di fondo, che riguar­dino regole di comportamento e controlli da parte delle autorità che devono vigilare, per restare al tema della crisi, sul funzionamen­to del sistema finanziario. Ancora, sul metodo di la­voro: non può più funzionare la tec­nica dei diversi 'formati' per cui il primo giorno ci si trova in otto e il secondo giorno il vertice diventa 'più cinque' o 'più sei', perché Paesi importanti come la Cina, l’In­dia o il Brasile di oggi non possono accettar­la. Ecco perché la soluzione vera sta nell’at­tribuire una maggiore rappresentatività ed efficacia alle istituzioni internazionali. Sia quelle di Bretton Woods (cioè innanzitutto il Fondo monetario internazionale), sia le stesse Nazioni Unite». Ma quella dell’Aquila è stata anche l’occa­sione, per la gente di tutto il mondo, di vede­re i propri leader a confronto con gli altri, di avere un test concreto dei rapporti di forza. E soprattutto, stavolta, di mettere alla prova il nuovo presidente americano, sul quale si concentrano molte speranze. Il capo dello Stato si è intrattenuto a lungo con lui, nella tappa che Obama ha fatto al Quirinale. E, a giudicare dal pubblico e calorosissimo elogio che ha ricevuto, qualcuno si è spinto a parlare di «affinità culturali e politiche». Esagerazioni dei mass-media, italiani ma non solo? «Ho avuto l’impressione che affini­tà ce ne siano», dice Giorgio Napolitano, quasi con l’aria di schermirsi.

«Ma ciò che mi ha veramente colpito, di Obama, è la stra­ordinaria impressione di come ascolta gli in­terlocutori. È appunto un uomo che ascolta e riflette, come per prendersi il tempo di da­re poi le risposte nel corso del suo mandato alla Casa Bianca. Aprendo le strade per un maggiore dialogo. Il presidente russo Medve­dev, che era seduto accanto a me durante il pranzo ufficiale, mi ha confidato di aver avu­to la medesima sensazione, durante l’incon­tro al Cremlino. A proposito di Obama, mi ha anche colpito l’attenzione e la sensibilità con cui si è riferito alle figure che rappresen­tano ruoli diversi in Italia: il capo dello Stato e il presidente del Consiglio. Ruoli che, co­me sappiamo, in America si identificano nel­la stessa persona, l’inquilino della Casa Bian­ca, mentre così non è da noi e Obama ha di­mostrato di esserne perfettamente consape­vole ». Cordialità e sintonia che il presidente del­la Repubblica ha riscontrato anche in tanti altri ospiti del G8. Angela Merkel, ad esem­pio, «che ha voluto assicurarmi che in Ger­mania si concluderà la ratifica del Trattato di Lisbona prima delle prossime elezioni e pri­ma del referendum irlandese». Ma anche il brasiliano Lula, con il quale ha una vecchia consuetudine, risalente agli anni Ottanta. E il premier inglese Gordon Brown, incuriosi­to dalla citazione presidenziale sull’esorta­zione di Keynes dopo gli accordi di Bretton Woods che chiusero la crisi del ’29. E l’egizia­no Mubarak e il francese Sarkozy, il turco Er­dogan («al quale ho confermato di avere in programma una visita in Turchia nel prossi­mo autunno») e tanti altri che — confida— «hanno elogiato l’accoglienza, l’organizzazione dei lavori e la gestione dei dibattiti e delle riunioni».

Ciò che gli fa dire, infine, che questo verti­ce «rappresenta indubbiamente un ricono­scimento e un successo per il presidente del Consiglio, Berlusconi». Il quale, confida, «senza problemi di ringraziamenti tra me e lui, è stato spesso in contatto con me in vi­sta del G8 e lì mi ha fatto calorosi compli­menti, e credo sinceri, per il mio discorso al pranzo dell’Aquila, nel quale mi sono ovvia­mente mantenuto al di sopra e al di fuori del­le distinzioni e divisioni politiche interne». «Un discorso — conclude — nel quale ho messo molto di certe mie esperienze e con­vinzioni personali. Come quelle che maturai fin dal 1943-44, quando avevo appena co­minciato a parlare l’inglese e mi ritrovai a leggere un libro di Wendell Willkie, repubbli­cano liberale che aveva girato tutti i teatri di guerra come inviato speciale del presidente Roosevelt. One world, s’intitolava quel libro. Un mondo solo. Un mondo che oggi chiamia­mo globale, e nel quale nessun Paese o conti­nente può fare da solo... Sono partito da que­sto riferimento, quando ho preso la parola davanti ai capi di Stato e di governo riuniti per il G8».


12 luglio 2009

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