mercoledì 22 aprile 2009

25 Aprile 2009.Punti di vista.

Oggi i giovani non ci fanno più caso, in molti non sanno nemmeno cosa si celebri il 25 Aprile, è un giorno di vacanza, magari tempo permettendo è l’occasione per fare i primi tuffi a mare. Non vanno dimenticati però quei ragazzi che non hanno perso il grande dono della memoria e del ricordo, ed è proprio tra questi che si apre l’ormai congenita spaccatura tutta italiana tra i rossi “pasdaran” della resistenza e i giovani di quella destra che non hanno subito la metamorfosi “democraticamente antifascista” sviluppatasi tra i palazzi romani. Il fatto che ancora ci siano ragazzi che credono e combattono per qualcosa, per ideali (che parolona in tempi di qualunquismo diffuso…), riempie senza dubbio di serenità civile chi vede ogni giorno in diretta il suicidio culturale di un’intera generazione cresciuta a pane e Grande Fratello, ma riflessione sul 25 aprile è più profonda e va affrontata da punti di vista differenti, prima di tutto che cos’è il 25 aprile? Il 25 aprile ci hanno insegnato alle scuole elementari, è il giorno della liberazione dal Nazifascismo, poi alle medie abbiamo cominciato a capire che nei libri di storia c’era un po’ troppa enfasi retorica nel distinguere settorialmente buoni e cattivi, infine al Liceo abbiamo capito che il 25 aprile è il giorno dell’odio, il giorno in cui militanti di destra e sinistra si guardano in cagnesco, abbiamo capito che sin dal 1946 è stata l’occasione per far ritrovare in piazza canuti partigiani e ipocriti profeti dell’antifascismo, abbiamo soprattutto capito che alla massa non gli e ne frega più di tanto e che il 25 aprile è solamente l’occasione per andarsi a fare un “cannone” al concerto dell’artista “comunista” di turno. Ma davvero ci siamo ridotti a tanto? Davvero il 25 aprile può essere soltanto odio o qualunquismo? Ahimè purtroppo questa è la triste realtà dei fatti, basta l’esempio delle celebrazioni del 2008, Milano è stata agitata da due grandi manifestazioni, la prima quella dei vecchi partigiani scortati dai fedelissimi partiti e partitini di matrice comunista, la seconda quella “furente” dell’urlatore “vaffanculesco” Beppe Grillo, il giorno dopo Vittorio Feltri titolò su Libero: “Un 25 aprile da Cabaret”, aveva perfettamente ragione.
E’ chiaro quindi che non vi è alcun senso del 25 aprile da recuperare, c’è un nuovo senso comune da creare, cioè quello di vedere il 25 aprile come un giorno di riflessione, perché questa data non segna soltanto la fine di una occupazione straniera come si potrebbe per esempio festeggiare in Francia o meglio ancora in Belgio o in Olanda, il 25 aprile nel nostro Paese segna soprattutto la fine di una sanguinosa guerra civile, che senza l’apporto degli angloamericani (è bene ricordarlo) sarebbe durata a lungo, dato che i volontari della GNR superavano in numero di gran lunga i militanti partigiani. In Italia questo tipo di dibattito è stato sempre impedito dai “gendarmi della memoria”, così li definisce Giampaolo Pansa i sinistrorsi “unici detentori del sapere e della verità assoluta”, quei pochi coraggiosi che in più di mezzo secolo hanno osato riaprire i bui armadi della memoria della resistenza, sono stati prima massacrati mediaticamente e poi censurati in quanto “fascisti”, ecco il vero volto della “libertà” comunista. Oggi è arrivato il momento di riflettere e revisionare la nostra storia, si non ho timore ad usare questo termine, non temo il fatto di essere bollato come revisionista, la leggenda della bella resistenza senza macchie fa acqua da tutte le parti e tutti lo sanno e tutti lo vedono, siamo l’unico Paese al mondo dove una mente aperta per avere un po’ di obiettività storica deve mettere da parte quello che ha studiato a scuola e mettersi a leggere i libri di Pansa e Pisanò. Basta, la misura è colma, basta con le pagliacciate dell’ANPI, basta alla retorica del Presidente della Repubblica, basta alla reiterata ed ostentata superiorità morale della sinistra. Il mio sogno è quello di vedere un’Italia pacificata dedita alla riflessione su quello che fù, riconoscendo l’uno le ragioni dell’altro, senza che alcuno assurga la propria superiorità, riconoscendo, e qui non vi è alcun dubbio, il ruolo di chi combatté credendo nei valori di libertà e democrazia, anche per questo vanno esclusi quei partigiani che combatterono per asservire la Patria ad altri dominatori stranieri. Concludo ricordando e onorando tutti i morti, partigiani (non filo sovietici) e repubblichini, poiché entrambi combatterono e caddero da posizioni opposte ma in buona fede per la difesa della Patria. (Alberto Cardillo)

lunedì 20 aprile 2009

Il camerata Barack Obama.













«Obama, il nuovo Duce?»
Bufera per le accuse a Barack

Una rivista accosta il presidente a Mussolini. Paragone ripreso anche in tv. Sdegno dei democratici

Barack Obama (Reuters)
WASHINGTON – Fino a pochi giorni fa, molti conservatori accusavano Obama di essere socialista. Ma adesso alcuni lo accusano di essere fascista. Saul Azunis, sconfitto il mese scorso alle elezioni a segretario del Partito repubblicano, definisce "fascista" il suo programma economico. La rivista American spectator lo paragona a Mussolini ("Il Duce?" è il titolo di un suo articolo). Glenn Beck, un guru televisivo, lo chiama "camerata". Le accuse hanno suscitato lo sdegno dei democratici e le riserve dei repubblicani moderati. Il New York Times ci ha ironizzato su: «Ma Obama - si è chiesto - saprà fare correre i treni in orario?», riferimento a un vanto vero o presunto del fascismo italiano.

CONNOTATO NEGATIVO - L'etichetta di fascista viene appiccata a Obama perché quella di socialista, usata dal candidato repubblicano John McCain nella campagna elettorale, non ha lasciato segno, spiega lo stesso Azunis: «Un tempo socialista era offensivo ma adesso non più. Fascista invece conserva un connotato negativo. E non è così politicamente scorretto come pare». American spectator lo conferma: «Fa più effetto dire che l'idea di governo, gli obbiettivi e la retorica di Obama vengono da Mussolini». Una strategia anticipata da Jonah Goldberg, un politologo neocon, nel libro "Liberal fascismo", secondo cui la sinistra Usa è fascista.

I PRECEDENTI - Come ricorda il New York Times, l'accusa di fascismo e socialismo (o comunismo) è ricorrente nella politica Usa. Il presidente Harry Truman, un democratico, la rivolse al rivale Tom Dewey alle elezioni del '48. All’inverso, nel '52 il candidato repubblicano alla vicepresidenza Richard Nixon diede del "rosso" all’avversario Adlai Stevenson. Ma con Obama è la prima volta che un presidente liberal viene equiparato al Duce, anche se negli Anni trenta Franklin Roosevelt, il suo modello, fu velatamente accusato di simpatie fasciste dai suoi critici. Di solito vien dato del fascista ai leader conservatori, come Keith Oberman, un altro guru televisivo, fece con W. Bush l'anno scorso. Ma non sembra una strategia vincente, e infatti i repubblicani moderati protestano che se non sarà abbandonata porterà più voti a Obama. William Kristol, uno dei consiglieri di McCain, ha ammonito che «Obama non è un «dittatore», né di destra né di sinistra, ma al massimo è uno statalista. In politica come in tutto, ha ammonito, non conviene superare certi limiti.


Ennio Caretto
20 aprile 2009

venerdì 10 aprile 2009

Quell’Italia che ce la fa .

di Ferruccio de Bortoli


Nei momenti di dolore colletti­vo si scoprono immagini inde­lebili di solidarietà, effi­cienza e unità d’intenti del nostro Paese. Due su tutte: la dignità e la com­postezza di chi ha perdu­to sotto le macerie un fa­miliare, la generosità di tanti volontari anonimi. In realtà, non dovremmo assolutamente sorpren­derci, come facciamo in questi giorni. Il Paese non si trasforma, non si scopre diverso. Mostra so­lo alcune delle sue tante qualità. Lo spirito italia­no, quello vero, è ben de­scritto dagli inviati del Corriere. E ci si accorge che l’informazione è uti­le, necessaria. Non do­vremmo stupircene. Insie­me alle notizie circolano i sentimenti, le emozioni. Ci si sente tutti parte di una comunità. Ma i me­dia non svolgerebbero fi­no in fondo il proprio compito se non denun­ciassero le tante incurie, le leggi inapplicate, le co­struzioni colpevolmente fuori norma. E se non continuassero, anche quando l’emergenza sarà finita, a diffondere quella cultura della prevenzione e della manutenzione che misura il nostro livello di civiltà.

Basta l’esempio di que­sti giorni drammatici per descrivere la funzione pubblica di un buon gior­nale. Su carta e online. Onesto, serio e costrutti­vo. Com’è il Corriere della Sera, un’autentica istitu­zione di garanzia del Pae­se, che da oggi sarà firma­to da chi scrive. L’impe­gno con i lettori, in estre­ma sintesi, è proprio que­sto. Il nostro è un giorna­le aperto. Nel quale le idee si confrontano e si ri­spettano. Ma noi siamo dei moderati, sottolineo moderati, orgogliosi del­la nostra tradizione. E del­la nostra indipendenza. Un giornale aperto è il luogo dell’incontro profi­cuo tra laici e cattolici. Il luogo della tolleranza e della ragione. Dove si ten­ta di costruire, piuttosto che distruggere. Che sta dalla parte del Paese. Non contro. E ambisce a rap­presentare quell’Italia che ce la fa, come quella di questi giorni di passio­ne in Abruzzo. Consape­vole dei suoi mezzi. Che produce, investe, studia; si rimbocca le maniche ed è orgogliosa di quello che crea. E va non solo in­formata correttamente ma anche rappresentata. Difesa. Un giornale mo­derno è anche uno spec­chio dell’identità di chi lo legge.

Il Corriere giudica sui fatti (e qualche volta può sbagliarsi), ma non sta pregiudizialmente con nessuno. Se fosse stato sempre al servizio di qual­cuno (anche dei suoi azio­nisti) non avrebbe mai po­tuto svolgere il ruolo sto­rico che gli è proprio. Non avrebbe mai potuto anticipare gran parte del­le scelte di civiltà e pro­gresso del Paese, le aper­ture all’Europa, al libero mercato. Paolo Mieli, a cui succedo per la secon­da volta, questi valori li ha conservati in una fase difficile nel rapporto fra informazione e potere. Gli va reso merito. Mieli continuerà a scrivere sul suo giornale.

Qui mi fermo. E cam­bio registro. Vorrei tratta­re in breve due temi. Pri­mo: perché un’informa­zione libera, indipenden­te e responsabile fa bene alla democrazia? Non è una domanda retorica.

Senza un'opinione pubblica consapevole e avvertita un Paese non è soltanto meno libero, ma è più ingiusto e cresce di meno. Il cittadino ha pochi strumenti affidabili per decidere, non solo per chi votare, ma anche nella vita di tutti i giorni. La sua classe dirigente fatica a individuare le priorità, lo stesso governo (come avviene nelle aziende in cui tutti dicono di sì al capo) seleziona più difficilmente le buone misure distinguendole da quelle che non lo sono. Il consumatore è meno protetto, il risparmiatore più insidiato. Lo spazio pubblico è dominato dall'inutile e dall'effimero.

Si discute molto, e a ragione, sugli eccessi dell'informazione. Che ci sono, e gravi. Di cui anche noi portiamo le nostre colpe. Si discute poco sui costi della non informazione. Dove c'è opacità il merito non è riconosciuto; quando c'è poca trasparenza le aziende e i professionisti migliori sono penalizzati, i lavoratori onesti posti ai margini, i talenti esclusi. I diritti calpestati. La qualità della cittadinanza modesta.

Colpisce che spesso la classe dirigente italiana, non solo quella politica, consideri l'informazione un male necessario. E sottostimi il ruolo di una stampa autorevole e indipendente.
Tutti l'apprezzano e la invocano quando i giornalisti si occupano degli altri, degli avversari e dei concorrenti. Altrimenti la detestano e la sospettano.

Molti confondono l'informazione con la comunicazione di parte o la considerano la prosecuzione della pubblicità con altri mezzi. Una classe dirigente che non riconosce il ruolo di garanzia dell'informazione dimostra una scarsa maturità e una discreta miopia. La leadership nei processi globali, in particolare in questi momenti di profonda inquietudine e disorientamento, è fatta di informazioni corrette, tempestive e credibili. Il dibattito vero fa emergere le politiche migliori, quello falso o reticente solo quelle che appaiono in superficie le più percorribili e all'apparenza le meno costose. Insomma, con i cantori a pagamento e gli spin doctors improvvisati non si va da nessuna parte.

Il secondo tema che vorrei trattare riguarda l'utilità dei giornali. Vivono una crisi profonda, questo è vero. Ma non sono mai stati così letti. Sulla carta e online. Ci sarà una ragione se un navigatore che vuole un'informazione credibile accede più facilmente al sito di una testata storica. La Rete è una grande piazza democratica ma il confine fra vero e falso, effimero e sostanziale, lecito e illecito è assai sottile. E poi c'è un'altra ragione. Guardatevi intorno: quali sono i simboli che vi ricordano tradizione, appartenenza, storia della vostra comunità? Sono pochi, pochissimi.

Un'alluvione di marchi e format globali. In strada, in tv e nella Rete. Persino la vostra squadra del cuore parla una lingua diversa. A volte capita che solo in edicola e in libreria si abbia la certezza di trovarsi nel proprio Paese. Con il suo giornale un lettore si sente sempre a casa. A suo agio. Con uno strumento (anche di lavoro) affidabile per interpretare realtà complesse.

Sentirsi parte attiva di una comunità ed essere contemporaneamente cittadino del mondo. Ecco perché un buon giornale cambierà, si trasformerà, si integrerà di più con Internet, ma resterà sempre un pezzo insostituibile della nostra identità nazionale, l'anima e la ragione per la quale stiamo insieme. Il Corriere racconta e dà voce all'Italia che ce la fa. L'Italia migliore, quella che abbiamo visto all'opera in questi giorni di lutto e solidarietà nazionale. E se le nascondesse difetti e limiti finirebbe per amarla di meno. Il che non è nemmeno pensabile.

venerdì 3 aprile 2009

La "simpatia" del nostro premier.






CLIMA GIOVIALE - All'indomani del video nel quale la sovrana sembra non nascondere la sua irritazione con il presidente del Consiglio italiano, che urla «Mr. Obama» durante la foto di famiglia in occasione del G20, una portavoce di Buckingham Palace tenta di stemperare le polemiche. Secondo Buckingham Palace, infatti, la «bacchettata» della regina era scherzosa e la regina non era affatto infastidita dall'irritualità del Cavaliere: «Era rumoroso e divertente, nessuna gaffe né offesa». Il clima, ha aggiunta una portavoce di Buckingham Palace, era «amichevole e caloroso» e tutti quelli che vi hanno partecipato erano a proprio agio.

Dopo questo chiarimento, che sicuramente deluderà i detrattori di Berlusconi, desidero esprimere la mia solidarietà al Cavaliere.
Ho letto tante cose su questo avvenimento .Qualcuno dice di provare pena per il Presidente del Consiglio...personalmente avevo più pena quando vedevo Prodi biascicare parole incomprensibili in consessi ufficiali o usare espressioni facciali non commentabili. E poi, a quanti hanno il problema di sentirsi rappresentati da Berlusconi, vorrei dire che esiste la libertà di muoversi sulla maggior parte degli altri territori del globo e prendervi residenza. Consiglio a coloro la Cina, la Corea del Nord, Cuba (da residenti...non da turisti): oltre ad avere idee politiche allineate con gli scriventi, i rispettivi Capi di Stato sicuramente non gli farebbero mai fare tali "brutte figure", rendendoli così felici.

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