martedì 3 novembre 2009

Giovanni Papini :un grande scrittore dimenticato.


Soltanto un paese come il nostro poteva dimenticare uno scrittore così grande, il fiorentino Giovanni Papini. Critici malati di ideologia e in malafede lo misero all’indice. C’è chi si spinse oltre dicendo che era un dilettante, una sorta di ‘giocoliere’ della parola scritta. Niente di più falso.
«Io nacqui povero e imparai prima a stentare che a godere». Papini si riconosceva appieno in queste parole del Machiavelli. Ebbe un’infanzia di povertà e solitudine. I libri furono la sua sola consolazione. Ne aveva una fame smisurata. Una passione tale che non riusciva ad appagare con la famosa cesta paterna. Si rivolgeva allora alla Biblioteca nazionale di Firenze. Poi, poco più che tredicenne, si mise in testa di scrivere un’enciclopedia compilando un’infinità di schede. L’autodidatta Giovanni Papini, passati i venti e forte del sodalizio con Giuseppe Prezzolini, diede vita con lui al ‘Leonardo’ (1903), l’importante rivista culturale con al centro il Pragmatismo, appoggiandosi alla tipografia di Attilio Vallecchi, in seguito editore anche dei loro libri. Si firmava con lo pseudonimo di ‘Gian Falco’, mentre Prezzolini usava quello di ‘Giuliano il Sofista’. Tre anni dopo pubblicava ‘Il crepuscolo dei filosofi’. A Parigi entrò in contatto con Henri Bergson (di cui tradusse le opere) e incontrò Ardengo Soffici. Un’amicizia forte, rara, bella, quella con Soffici. Tornato a Firenze, dopo cinque anni di vita spesi per il ‘Leonardo’ e la filosofia, decise di sposarsi con Giacinta Giovagnoli. Le nozze furono celebrate in chiesa, nonostante fosse ateo e figlio di garibaldino. Giacinta era di Bulciano (piccola frazione di Pieve S. Stefano, in provincia di Arezzo), dove egli spesso amava ritirarsi per scrivere o riposare. Nel 1908, Giuseppe Prezzolini fondò ‘La Voce’, una delle iniziative culturali più significative del Novecento italiano: «La sua aria di correttore e moderatore dell’Italia e del pensiero non mi piace – scriveva Papini in una lettera a Soffici –. Vedremo la rivista, alla quale ho promesso di collaborare purché ci sia libertà di scrivere cose contrarie al padron di casa». Prezzolini gli rimproverava però l’amicizia con Ardengo Soffici e l’allontanamento dalla filosofia, Papini gli rinfacciava invece quella con Benedetto Croce. «Son sicuro del fatto mio e son pronto a fare i conti con chiunque, senza metter sotto banco neppure un centesimo». Giovanni Papini non era certo tipo da tirarsi indietro, quando c’era da accapigliarsi nelle zuffe intellettuali. Ne era attratto e gli garbavano. E lo stesso fece con don Benedetto. Nelle celebri e fortunate ‘Stroncature’ lo definì un «bestione da soma e da lavoro», accusandolo di voler essere «il solo papa, il solo messia, il solo dittatore della cultura italiana», e di essere, con la sua sopravvalutata filosofia, pericoloso per l’intelligenza della gioventù. Più tardi, Soffici e Papini creeranno un’altra rivista, ‘Lacerba’, per dare maggiore risalto all’arte e alla poesia (con la parentesi futurista – conclusasi con il noto articolo ‘Il cerchio si chiude’ – e la scoperta di Ungaretti). Nel contempo Giovanni Papini dava alle stampe ‘Un uomo finito’, la sua autobiografia spirituale: «Caro Giuliano», così ricordava Giuseppe Prezzolini, «la nostra amicizia non ha avuto niente di molle, di femmineo, di patetico e – diciamolo pure – di cordiale. È stata l’amicizia di due cervelli in pena e non la corrispondenza di amorosi sensi di due cuori confidenti. Non ci siamo baciati mai; non abbiamo pianto insieme, neppure una volta e nessuno di noi ha detto all’altro i segreti più cari delle sue passioni. Sì: tu dovrai riconoscerlo. La nostra amicizia non fu come tutte le altre. Tutta cerebrale, tutta intellettuale, tutta filosofica ebbe pur nondimeno gli ardori e le tempeste degli attaccamenti del cuore». Prezzolini, anni dopo, osserverà: «Ci fu da parte mia un sentimento, parte cosciente e parte inconscio: quello di difendermi dalla personalità di Papini. Sentii subito che era un genio». Ma bisognava ribellarsi alla sua aggressività «per poterci stare insieme. In un certo senso era questo il miglior modo di acquistar la sua stima. Inoltre, quando lo incontrai, mi superava di quasi un anno d’età, e molto di cultura e di lettere, e infinitamente di sicurezza intima». Lo scrittore fiorentino lavorò poi al ‘Tempo’ di Roma (occupandosi della terza pagina) e scrisse ‘L’uomo Carducci’. Finita la Grande Guerra, una profonda crisi spirituale lo accompagnò. Nacque in quel contesto la ‘Storia di Cristo’, che tenne nascosta fino all’ultimo persino alla moglie. Quando uscì la sorpresa fu enorme, perché erano ben note le sue idee ed era considerato una specie di ateo bestemmiatore. La scrisse, comunque, con la consapevolezza che nessuna vita di Gesù «potrebbe essere più bella e perfetta degli Evangeli». Ma, al di là di tutto, dietro la conversione c’era stato l’aiuto del padre gesuita Rosa, direttore della ‘Civiltà Cattolica’. Egli fece nel ’25, anno giubilare, un viaggio a Roma. Ne approfittò pure per far visita al povero Giovanni Amendola, bastonato dalle squadracce fasciste. Papini venne tenuto fuori della porta dell’Accademia d’Italia per alcuni anni (peraltro da lui ideata e caldeggiata). A remargli contro fu soprattutto Marinetti, che non gli perdonò il ripudio del Futurismo. Non era un oratore, anzi tutt’altro. Ottenne inoltre la prestigiosa cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna (già ricoperta dal Carducci e dal Pascoli), ma l’aggravarsi della malattia agli occhi lo costrinse a rinunciarvi. Quando morì D’Annunzio (ferocemente stroncato in passato), volle recarsi a S. Trinita a pregare per lui. Dopo il vile assassinio di Giovanni Gentile, Papini rifiutò di presiedere l’Accademia d’Italia. Divenne terziario francescano con il nome di fra Bonaventura. Egli non appartenne a nessun partito, pur non rinnegando mai la sua tardiva amicizia con Mussolini (come registra il Ridolfi, suo biografo). Ormai completamente cieco e paralizzato, si spense l’8 luglio del 1956 a Firenze.

Patrizio Ciotti

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