martedì 22 giugno 2010

Monumento ai caduti del 1943: debito di memoria ma anche sfida culturale

DAL BLOG DEL QUOTIDIANO DI FOGGIA.

Costruire un monumento ai 22.000 foggiani caduti sotto le bombe alleate nella tragica estate del 1943 non è soltanto utile a pagare un debito con la memoria. È un modo per affrontare il problema più acuto e profondo che angustia Foggia, tanto più inquietante perché rimosso, non percepito: la questione dell’identità.
È l’identità – il senso di radicamento ad un territorio, di appartenenza ad una comunità civile – che produce sviluppo. Di un’identità la memoria è una componente fondamentale. Al contrario, lo “smemoramento” produce disorientamento, disagio, difficoltà ad adattarsi al posto in cui si vive, quartiere, luogo di lavoro, città.
In quella estate del 1943 la memoria di Foggia fu ferita in modo lacerante ed irreversibile: quelle 220.000 vite spezzate rappresentavano circa un quarto della popolazione residente, ed andò ancora peggio alle “cose”, ai palazzi, ai monumenti. Un consistente pezzo di memoria e di identità andarono perdute per sempre. Foggia non era più la stessa. Foggia non sarebbe mai stata come prima.
Si è scritto e discusso spesso sulle ragioni per cui il dovere della memoria verso quei morti non è stato mai del tutto onorato. Forse la necessità di dimenticare in fretta per accingersi ad una improba ricostruzione, portò ad una rapida elaborazione del lutto. Forse la volontà di custodire quella memoria e quel po’ di identità che erano sopravvissute andarono attenuandosi al cospetto di un altro fenomeno importante ai fini della sua ricaduta sull’identità, su cui non si è mai discusso abbastanza. Mi riferisco all’impetuoso tasso di immigrazione che fede del capoluogo dauno una delle città a più rapida crescita demografica negli anni Sessanta: dai comuni delle provincia si spostarono intere comunità, la popolazione cresceva al ritmo di 3.000 nuovi residenti all’anno. Alla vecchia identità si andavano sommando tante nuove, indefinite identità, con il risultato di sprigionare alla fine un’identità collettiva debole, scarsamente percepita.
Ci sarebbe voluto un governo politico di questa impetuosa fase di transizione e di trasformazione e non mancarono i tentativi lodevoli dell’allora classe dirigente: tanto per dirne una Foggia fu tra i primissimi capoluoghi di provincia a dotarsi di un piano regolatore generale che, pur esaurendosi rapidamente, garantì una crescita urbanistica in qualche modo ordinata fino a quando vi furono aree edificatorie a sufficienza.
Cosa è successo dopo? È difficile dirlo con certezza: il problema della identità debole è cresciuto macroscopicamente, e non soltanto sul versante urbanistico ed edilizio (che rappresentano il modo con cui una città esprime la sua identità, non sono soltanto qualcosa di astratto o di economico). Forse è proprio la crescita urbanistica della città negli ultimi decenni a denotare gli effetti devastanti di questa perdita di identità e di senso della città: quartieri dormitorio che si sovrappongono a quartieri di lusso, servizi dappertutto inesistenti, luoghi di socializzazione che sono andati via via scomparendo, una crescita delle aree commerciali che si è concentrata nell’estrema periferia, svuotando il centro cittadino che è poi quello in cui si concentrano la storia ed il passato della città, e dunque anche la capacità della città di ritrovare e vivere la sua identità.
Ritrovare (ovvero riscoprire, visto che i giovani forse neanche hanno sentito parlare dei bombardamenti) la memoria di quell’evento che più di ogni altro ha contribuito a disperdere l’identità è il primo passo da muovere per riconquistarla, l’identità. È tutt’altro che un’operazione di passato: è una grandiosa operazione culturale che può servire a costruire un futuro migliore per la città.
Geppe Inserra

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